Bari, 8 agosto 1991 – LA VLORA, trent’anni fa
All’alba dell’8 agosto 1991, giusto trent’anni fa, la motonave Vlora, partita la sera prima da Durazzo, si parò davanti al porto di Brindisi. Aveva a bordo, stipati all’inverosimile, più di ventimila albanesi che fuggivano da un regime bieco e criminale ormai agli sgoccioli. Al tiranno Enver Hoxha, alla sua morte, era succeduto Ramiz Alia. Un anno soltanto e le cose, anche da loro, finalmente sarebbero cambiate. Avevano un sogno di libertà che s’infranse in Italia in poco più di una settimana. Qualche mese prima, altri albanesi avevano tentato la stessa sorte. Ma questa volta, l’Italia che credevano una madre e che avevano cominciato a conoscere e ad amare in modo clandestino, come amante segreta, attraverso i programmi della nostra televisione, si mostrò matrigna. Questa Italia dell’altra sponda, tradendoli, chiuse le porte in faccia. Dispose infatti la chiusura del porto e non diede il permesso di attraccare. Erano – va detto – Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga; Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti; ministro degli Interni, Vincenzo Scotti. Davanti al rifiuto, La Vlora, allora, virò di dritta e puntò su Bari. L’Italia si rese conto che un’azione di forza sarebbe valsa una carneficina. Le fecero largo, ma senza applausi o sventoli di bandiere, e la Vlora entrò in porto. Bari, l’Italia, la libertà! Però non andò così. La fecero attraccare a un molo in disuso e centinaia di carabinieri e poliziotti fecero cordone per non mostrare la vergogna. E fu il benvenuto in Italia. In queste stesse ore partii da Roma, a rotta di collo, diretto a Bari per raccontare questa brutta storia per conto del mio giornale. Arrivai a Bari che gli albanesi erano già tutti sbarcati e portati con autobus di linea e mezzi militari nel vecchio stadio comunale della città, e qui ammassati sotto il sole d’agosto, nell’immondizia e gli escrementi. Ricordo che ho passato quei giorni a chiedermi: «Ma per scappare così, da quale inferno sono scappati?» Molti soltanto in slip o pantaloni strappati, altri con canottiere lacere e sporche. C’erano tra loro anche bambini piccoli. Tutti in una bolgia infernale e tenuti a bada dalle forze dell’ordine che utilizzavano addirittura manici di scopa. Il fronte contro cui noi giornalisti dovemmo lottare fu la disinformazione orchestrata dal governo italiano. Per avere consenso, l’Italia cercò di far passare questi disperati sotto l’etichetta di «brutti, sporchi e cattivi» e, dunque, perfino pericolosi: delinquenti o terroristi. Fu inventata per loro la categoria degli «irriducibili», quelli cioè che non accettavano il rimpatrio. Fu fatto credere che fossero armati fino ai denti. In realtà, tra loro c’erano anche due o tre poliziotti che nel porto di Durazzo, invece di impedire che i connazionali prendessero d’assalto la nave, si unirono a loro! Venivano sfamati nello stadio con lancio di panini e dissetati con altri lanci di bottiglie di acqua minerale. L’ordine era quello di sfiancarli e poi di mortificarli. Peccato ci fossimo noi con i nostri taccuini, le nostre telecamere e le macchine fotografiche. Insorse la Caritas Italiana, mezzo mondo puntò il dito contro l’Italia. Il presidente Cossiga chiese le dimissioni del prefetto della città. Poi, dopo una decina di giorni, il colpo di genio di cui però nessuno volle prendersi la paternità. Gli albanesi furono blanditi e lusingati. Furono comprati! Fu offerto a tutti quelli che avessero accettato il rimpatrio 50 mila lire e, come bonus, fu dato anche un pantaloncino. Erano troppo poveri per dire di no! Scrissi che il sogno degli albanesi era iniziato in mutande ed era finito con un bermuda a fiori. Ho cominciato in questi giorni della vergogna ad amare gli albanesi. Volevo dire ad ognuno di loro: Altin o Bashkim o Meti o Ilir … ma da dove scappi per scappare così? La scena più disperata, quella che mi straziò, fu sul molo di Bari. Da dietro le transenne, sorvegliate dai carabinieri, un albanese già in Italia, riconobbe tra i nuovi arrivati forse il figlio o il fratello minore che andò verso di lui. Si abbracciarono piangendo. Giusto il tempo di mischiare sul viso le loro lacrime, poi i carabinieri immediatamente e con vigore spezzarono questo abbraccio (ho numerato le foto da 1 a 4). Poi – ma questa è un’altra storia – nel mese di dicembre dello stesso anno ebbi l’occasione di andare per la prima volta in Albania. Il Paese si preparava alle elezioni anticipate che l’opposizione era riuscita a strappare a Ramiz Alia. Marzo 1992: una nuova primavera per questo popolo che aveva tanto sofferto. Nel Paese delle Aquile ho avuto poi modo, negli anni, di conoscere alcuni di quei disperati di Bari. So che tanti adesso hanno anche nipoti che hanno saputo l’impresa dei nonni o dei padri. Non sono né brutti né sporchi né cattivi.
facebook \ testo e foto di Giovanni Ruggiero